Concorso PNRR, tragedia dopo la prova. Le testimonianze, Alessandra non tornerà mai più in aula. Le verità sul caso
- La Redazione
- 18 giu
- Tempo di lettura: 4 min
Una vita precarizzata, fino all’ultimo giorno. La comunità scolastica è sotto shock. I colleghi del liceo hanno scritto parole forti, sincere...urge un cambio di rotta.

La sera Alessandra Casilli avrebbe dovuto partecipare alla cena di fine anno con i suoi ragazzi, ma non è mai arrivata. Un dolore immenso, troppo grande. Colleghe, colleghi e alunni della classe I C ricordano Alessandra: "stimata non solo come insegnante ma come persona di grande umanità e dedizione."
Il concorso, la notte insonne, il viaggio: poi la morte. Così è morta Alessandra, vittima della scuola del precariato
Alessandra non tornerà mai più nella sua classe al liceo “Lorenzo Rocci” di Fara in Sabina. Docente precaria, 54 anni, è morta in un tragico incidente stradale mentre rientrava dalla prova orale del concorso per la classe A040, sostenuta a Campobasso.
La sua auto ha invaso la corsia opposta nella galleria “Trinità”, lungo la Statale 85 Venafrana, schiantandosi contro un furgoncino. Un impatto violento, fatale. Ma forse evitabile. Perché Alessandra, come migliaia di colleghi, stava affrontando un concorso massacrante, organizzato senza rispetto per chi ogni giorno tiene in piedi la scuola italiana.
Una vita precarizzata, fino all’ultimo giorno
La comunità scolastica è sotto shock. I colleghi del liceo hanno scritto una lettera aperta al Ministro Valditara. Parole forti, sincere, che Gianni Cuperlo ha definito “profonde per le verità che descrivono”. In quelle righe, una frase risuona come un atto d'accusa: se anche non sono la causa diretta della sua morte, certe condizioni lavorative hanno certamente precarizzato la sua vita.
Alessandra è morta stanca, probabilmente esausta, al termine di un concorso preparato tra lezioni, viaggi, ansia e notti insonni. Un concorso per il quale non sono previsti rimborsi, né per le trasferte, né per l’alloggio, né per i materiali.
E tutto questo in un Paese che ha oltre 250.000 docenti precari e che l’Unione Europea ha già messo sotto infrazione per abuso di contratti a termine nella scuola. Una definizione che fotografa perfettamente l’anomalia italiana.
Eppure, i concorsi PNRR vanno avanti. Nessuno stop, nessun correttivo. Chi è risultato idoneo nel primo, senza essere vincitore, ha dovuto partecipare anche al secondo. Una giostra disumana, che logora nel corpo e nella mente. Uno stress che sfida chiunque a sopravvivere.
Il racconto dei colleghi: il concorso come incubo collettivo
C’è chi, guidando verso la sede d’esame, dopo una notte insonne passata a preparare la lezione simulata, ha sbagliato casello in autostrada. Poco male, si potrebbe dire. Ma in quelle condizioni bastava poco per fare la stessa fine di Alessandra.
C’è chi è uscito da scuola senza neanche pranzare per raggiungere un paesino sperduto dove si teneva la prova scritta. Il GPS non riconosceva la strada, la tensione era altissima, il panico crescente. L’arrivo è stato a dieci minuti dalla chiusura delle porte, con il cuore in gola e la mente svuotata.
Un’altra docente ha raccontato di essere partita alle quattro del mattino per raggiungere la sede dell’orale, dall’altra parte della Sicilia. Dopo 24 ore di studio ininterrotto, è salita in macchina nel buio, ha guidato per ore, ha affrontato l’esame e poi, nello stesso giorno, è tornata indietro per poter lavorare il giorno dopo. Una prova estrema, che non si augura a nessuno.
C’è anche chi ha detto chiaramente di aver avuto paura. Paura vera. Tornando dal concorso, con le mani che tremavano sul volante, ha sbagliato strada. Non era mai stata in autostrada prima. Aveva dormito poco, la testa era annebbiata. E per un attimo ha pensato che non sarebbe arrivata a casa.
Vale ancora la pena?
Dopo la morte di Alessandra, molti si stanno facendo la stessa domanda. Vale la pena? E la risposta, spesso, è no. Non è un posto sicuro, né stabile. È un continuo stazionamento in trincea, in attesa di essere chiamati, spostati, cancellati. A ogni colpo di vento rischi di essere spazzato via.
C’è chi ha deciso di rinunciare. A 180 chilometri da casa, con un affitto di 800 euro al mese, non ci si può andare. Soprattutto se si è soli. Nessun figlio, nessun compagno, nessuna rete. La vita è già pesante così.
C’è chi ricorda ancora il TFA affrontato da sola, con una bambina di 7 anni, a 700 chilometri dalla famiglia. Ancora oggi, a distanza di anni, il solo ricordo fa tremare. Non era vita, era sopravvivenza.
Non è un caso isolato. È un sistema malato
La morte di Alessandra non è un evento isolato. È il sintomo di un sistema che umilia, stressa e abbandona i suoi professionisti. L’Italia, oggi, ha bisogno di una riflessione profonda. Non bastano i bandi. Serve rispetto. Serve dignità. Serve verità.
E serve una domanda che nessuno vuole più evitare: quante vite devono spezzarsi prima che qualcosa cambi davvero?
di LA REDAZIONE
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