Galimberti: occorre restituire il giusto valore ad ogni lavoratore che, in quanto persona, non deve trasformarsi in una macchina priva di emozioni che esegue meccanicamente le funzioni assegnategli
- La Redazione
- 9 giu
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L’ottica nella quale si agisce è quella della maggiore produttività per raggiungere il maggior profitto così che ciascun soggetto, in quanto lavoratore, non sia più considerato essere umano ma macchina che…

La nostra società, all’insegna della produttività e dell’efficienza, sembra aver dimenticato la vera essenza di ciascun lavoratore che, in quanto persona, ha delle ambizioni, delle aspirazioni, dei sogni da realizzare, e quindi non può e non deve trasformarsi in una macchina che esegue meccanicamente le funzioni assegnategli senza provare delle emozioni o manifestare dei bisogni.
A tal fine Anna, un giovane ragazza impiegata presso un call center, rivolgendosi al filosofo, saggista e psicoanalista Umberto Galimberti, esprime il suo rammarico in merito in tal modo:
“Mi sento una scimmia. Sì, posso a ragione affermare di avere lo stesso margine di autogestione di una scimmia ammaestrata. È il mio lavoro. Rispondo al telefono. Tutto il giorno. Sempre e comunque, tutto il giorno, tutti i giorni. Sono inchiodata allo squillo di un apparecchio telefonico; una invisibile quanto infida catena mi lega al tanto odiato oggetto in questione che tiranneggia ogni mia azione. Non mi alzo dalla postazione, non mi allontano, non parlo con il collega se non è il telefono a deciderlo, interrompendo, per il tempo che è lui a stabilire, il suo martellare perpetuo”.
Questa giovane ragazza, in modo chiaro ed inequivocabile, vuole denunciare un sistema che la priva di qualsiasi creatività, possibilità di ideazione e progettazione nello svolgimento della sua attività; a tal proposito parla del suo lavoro come se si trattasse di una catena di montaggio, e quindi occorre agire meccanicamente senza distrazioni, interruzioni o tentennamenti, cronometrando ogni chiamata, senza mai distogliere gli occhi dallo schermo del computer.
Bisogna essere veloci ed efficienti, proprio come delle macchine, e la cosa più importante è riuscire a gestire il maggior numero di chiamate, a prescindere dalla metodologia utilizzata.
“Sono la funzione che svolgo, mi identificano completamente con essa. È normale ed è semplice; nessuno si pone il problema. Se infatti, invece che strumento, dovessi essere considerata persona, bisognerebbe tener conto di una variabilità tale di fattori che la lineare e asettica sequenza ‘chiamata-risposta’, ripetuta sempre uguale e senza sbavature, non sarebbe applicabile. Se il sistema mi vedesse come una persona, gli toccherebbe ad esempio mettere in conto che tra le pieghe del lavoro che mi chiede di svolgere si possano infiltrare, condizionandolo, tutte le debolezze umane: la stanchezza fisica, la stanchezza psichica, i periodi problematici, i momenti di demotivazione e di indolenza, persino quelli di pigrizia. E ancora, se mi pensasse come essere umano nella sua globalità, sarebbe costretto a considerare le mie aspirazioni, le mie naturali inclinazioni, le mie preferenze”, queste le parole pregne di significato con le quali Anna racconta la sua personale esperienza lavorativa.
L’ottica nella quale si agisce è quella della maggiore produttività per raggiungere il maggior profitto così che ciascun soggetto, in quanto lavoratore, non sia più considerato essere umano ma macchina che esegue un compito.
Nonostante ciò appare una colpa imperdonabile non accontentarsi, dovendo considerarsi un lusso poter soddisfare con uno stipendio minimo garantito le proprie necessità meramente materiali.
“Così, quando chiunque mi dice che sono già fortunata ad averlo un lavoro, qualunque esso sia, non posso che incassare, mestamente annuire, mentre dentro di me non riesco a fare a meno di pensare che, ebbene sì, io a fine mese ci arrivo, anche se non senza qualche sacrificio, ma a quale prezzo?”, attraverso tale interrogativo Anna continua la sua profonda riflessione.
A tal proposito Umberto Galimberti fa riferimento ad un’alienazione che potremmo chiamare de-umanizzazione proprio perché nell’età della tecnica l’uomo non è più il soggetto del suo operare, ma il semplice esecutore di azione prescritte e descritte dall’apparato tecnico.
“Nell’età della tecnica l’uomo deve farsi simile alla macchina, trasformarsi in macchina, prendere esempio dal computer che ha davanti agli occhi in qualsiasi apparato occupazionale, perché il computer non si assenta dal posto di lavoro, non prende ferie, non si ammala, non va in depressione come talvolta capita agli umani, non si demotiva, non si distrae, non è turbato da sentimenti o problemi familiari, non cerca la propria autorealizzazione”, così come ci spiega molto dettagliatamente il filosofo.
Secondo Umberto Galimberti, pertanto, occorre restituire il giusto valore ad ogni lavoratore che, in quanto persona, non deve trasformarsi in una macchina priva di emozioni che esegue automaticamente e meccanicamente le funzioni assegnategli, raggiungendo il massimo degli scopi con l’impiego minimo dei mezzi.
Ciascun soggetto, infatti, ancor prima che lavoratore, deve essere considerato persona, e quindi non può identificarsi nella funzione che svolge ma deve poter ambire alla propria autorealizzazione, ristabilendo quel giusto equilibrio che ponga al centro le sue aspirazioni, ambizioni, i suoi sogni, e non valori quali l’efficienza e la produttività, così da restituire dignità ad ogni essere umano in quanto tale, privilegiando la sua essenza senza mortificare o svilire la sua identità.
di VALENTINA TROPEA
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