Recalcati:"Avere cura di un figlio significa amarlo nella sua unicità,riconoscendo la sua fragilità senza giudicarlo;così la scuola dovrebbe prendersi cura di ogni allievo senza limitarsi a valutarlo"
- La Redazione

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Prendersi cura di un figlio significa innanzitutto amarlo nella sua unicità, accogliendo le sue fragilità senza giudicarlo….

“Il nostro tempo celebra con devozione la potenza dei numeri, la precisione degli algoritmi, la neutralità delle statistiche. Si tratta di una vera e propria idolatria che tende a scambiare lo scientismo per una nuova forma di religione. La credenza che la sostiene è quella della traduzione esaustiva della vita in un formulario anonimo: i vissuti emotivi diventano grafici, i corpi funzioni, i desideri riflessi condizionati, il pensiero intelligenza artificiale.
Ogni parte dell’umano può essere misurata, calcolata, tracciata. Ma in questa nuova idolatria si è perduta la dimensione umana della cura, la quale non può essere identificata in una procedura anonima poiché essa è innanzitutto un atto simbolico che riconosce il carattere insostituibile di ogni singolarità”: attraverso tale ragguardevole disamina lo psicoanalista e saggista italiano Massimo Recalcati coglie l’occasione per spiegare cosa significhi veramente prendersi cura dell’altro.
Curare significa innanzitutto ascoltare, così come in psicoanalisi accogliere un paziente significa innanzitutto fare spazio alla sua parola.
Eppure ad oggi il carattere impersonale dello sguardo del medico prevale sul riconoscimento della singolarità del paziente, il quale diviene necessariamente un numero di cartella, un codice fiscale, un caso clinico.
“L’incuria, infatti, non è tanto l’assenza di cura, ma la sua deformazione impersonale. È una cura che ha cancellato il volto dell’altro insieme alla sua parola, che impone protocolli e procedure standard anziché prendere in carico la soggettività del paziente.
A prevalere a senso unico è la logica anonima dell’algoritmo – una logica senza nome, senza corpo, senza desiderio – che sopprime i rilievi singolari che rendono invece unica la storia di un paziente”: ecco allora che lo psicoanalista ci spiega come oggi si dissolva il singolare nel collettivo, si cancelli il volto dietro lo schermo, si riduca la sofferenza ad un dato statistico.
L’avere cura, dunque, evoca la figura della madre: “è la madre a mostrare che ogni figlio è figlio unico. In questo senso l’amore materno esclude per principio ogni forma di serialità. Se ogni figlio ai suoi occhi è figlio unico, non lo è nell’ordine del numero, ma solo nella sua esistenza impareggiabile”.
Dunque prendersi cura di un figlio significa innanzitutto amarlo nella sua unicità, riconoscendo la sua fragilità senza giudicarlo, mostrando che ogni figlio è figlio unico, speciale nella sua impareggiabile esistenza.
Allo stesso modo “la scuola dovrebbe custodire la cifra singolare di ogni allievo. Eppure essa viene spesso ridotta a una macchina valutativa che misura, classifica, esclude. George Steiner la definiva, da questo punto di vista, distruttrice dell’avvenire”
Ecco allora che assistiamo ad una “disumanizzazione silenziosa”: il medico produce referti, il docente compila griglie, lo psicologo aggiorna piattaforme digitali. In questo modo si rischia di essere trascinati dentro un vortice burocratico che mentre assicura vigilanza e controllo genera di fatto una distanza disumana. Dovremmo invece ricordare che ogni gesto di cura è innanzitutto un atto di riconoscimento”, queste le parole attraverso le quali Massimo Recalcati culmina la sua splendida e ragguardevole riflessione.
di VALENTINA TROPEA






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