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Crepet e Galimberti: lo schiaffo educa? Essere autorevoli è la strada maestra, no alla resa genitoriale

Crepet e Galimberti, pur con linguaggi e approcci diversi, concordano su un punto centrale: educare non significa esercitare...

La recente decisione del Consiglio nazionale svizzero di vietare esplicitamente l’uso della violenza fisica e psicologica nell’educazione dei figli segna un passo importante nella tutela dei minori. La modifica al Codice civile, approvata con larga maggioranza, chiarisce che i genitori devono crescere i figli senza punizioni corporali né maltrattamenti, confermando un orientamento che già il diritto penale tutelava ma che ora trova una formulazione ancora più netta.

Su questo tema si è espresso il noto autore Paolo Crepet, psichiatra e sociologo, che ha elogiato la scelta elvetica definendo inaccettabile che, in una società moderna, si possa ancora giustificare l’uso della violenza a scopo educativo. Per Crepet, il rispetto non è qualcosa da conquistare con l’imposizione, ma deve essere il punto di partenza di ogni relazione educativa. Secondo l'esperto, la vera forza di un genitore sta nell’autorevolezza, non nell’autorità imposta con la forza. Educare significa trasmettere fiducia, come riassume la frase: “Io credo in te”.

Questo tipo di approccio, basato sulla fiducia nel potenziale del figlio, è ciò che consente una crescita autonoma, responsabile, non imposta ma guidata. Crepet critica però anche l’estremo opposto, ovvero quella che chiama “figliarcato”, una tendenza diffusa tra molti genitori contemporanei a cedere completamente il proprio ruolo, lasciando che siano i figli a stabilire le regole. Questo atteggiamento permissivo, spesso motivato dalla paura del conflitto, produce giovani privi di confini e di riferimenti solidi.

Per approfondire il tema da un punto di vista differente, estremamente significativo, abbiamo utilizzato alcune riflessioni del filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti, che pone l’accento sulla natura delicata e strutturante della relazione genitore-figlio.

Secondo Galimberti, i genitori hanno un ruolo educativo fondamentale fino ai dodici anni, periodo in cui “la loro parola è realmente significativa”. È in questa fase che devono parlare, leggere, giocare con i figli, creare un legame fatto di dialogo e presenza. Dopo i dodici anni, con l’inizio della pubertà e della pulsionalità sessuale, la relazione cambia natura: “da verticale diventa orizzontale, e il confronto si sposta sugli amici”. Tuttavia, ciò che è stato costruito prima non va perduto: diventa un punto di riferimento che può tornare vivo più avanti, intorno ai vent’anni, quando “i lobi frontali, sede della razionalità, maturano completamente”.

 In quel periodo, i figli ricominceranno a dialogare, ma solo se nei primi anni il dialogo c’è stato. In assenza di una base solida, non ci sarà nulla a cui tornare. Per Galimberti, in quella fase intermedia ciò che conta non è tanto ciò che il genitore dice, ma ciò che è: diventa fondamentale l’esempio, il modello, la coerenza tra le parole e le azioni. Se un padre si comporta come un coetaneo, “cercando di essere amico più che guida”, perde il suo ruolo educativo. I genitori, dice Galimberti, “non devono avere paura di porre regole, di dire dei ‘no’”, perché è proprio nella capacità di delimitare, indicare una strada, che si esercita la vera autorevolezza. Troppi adulti oggi temono di essere impopolari con i propri figli, ma questa paura genera una rinuncia educativa che ha effetti pesanti sul lungo periodo. Così, le riflessioni di Crepet e Galimberti, pur partendo da prospettive diverse, convergono nel rifiuto sia della violenza fisica che della resa educativa. Educare non significa né colpire né cedere: significa esserci, con presenza, coerenza e fiducia, per accompagnare i figli verso la maturità senza scorciatoie ma anche senza abbandoni.



di La Redazione

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